Dopo due anni di stillicidio, di informazione pseudo-scientifica ambigua e contraddittoria, l’esperimento è riuscito: è stato colonizzato il cervello con la paura del virus e milioni di persone, nonostante non ci sia più l’emergenza sanitaria e l’obbligo di legge continua ad indossare la mascherina.

I media hanno dimostrato che possono influenzare e cambiare la percezione del mondo ma anche la percezione di noi stessi. Il risultato è che non siamo più padroni dei nostri pensieri ma seguiamo quelli che ci inseriscono gli altri.

Ma è solo per paura che viene mantenuta? O ci sono altre motivazioni?

Ascolto le persone confessare: “Ho difficoltà a toglierla, mi sento più a mio agio, più coperta, non sono costretta a salutare chi non mi riconosce, a parlare, a fingere sorrisi o espressioni che non sento, mi sento protetta dallo sguardo altrui, mi dà più sicurezza e non mi preoccupo più se ho il viso stanco quando mi alzo la mattina”. 

Possiamo nascondere meglio la tristezza, il dolore, ma anche il disprezzo e la vergogna. Possiamo scappare dall’inquietudine e dall’insicurezza di non piacere e non piacerci, di non essere abbastanza. Ci difendiamo dal contatto, dalla responsabilità di incontrare l’altro con tutto il suo essere, con tutto il suo vissuto che traspare dal viso, dal tono della sua voce.

In fondo abbiamo paura dell’intimità.

E dietro questo schermo non siamo più obbligati a mostrare le nostre emozioni e/o a doverle spiegare o giustificare.

Ci siamo alleggeriti dal peso delle relazioni affettive e sociali. L’altro in fondo, non ci interessa più di tanto e forse era così anche prima ma non ce ne accorgevamo.

Cosi, tornare a riscoprire il viso significa sentirsi denudati e “letti”, interpretati, giudicati”.

Meglio coprire, nascondere gli aspetti della comunicazione non verbale, coprirsi lì dove siamo veri, spontanei, ma anche fragili ed esposti al giudizio altrui.

Meglio isolarsi con una sorta di cuscinetto tra noi e gli altri, in un ritiro sociale che caratterizza la nostra società. E se isolato, sei più solo, più debole, più manipolabile.

Così la maschera diventa la nostra realtà e la nostra identità e la difendiamo come alibi per non vedere le maschere interiori che portiamo da sempre, copioni dietro cui nascondere le vere necessità, i desideri e i bisogni, le tristezze e le sofferenze.

L’oggetto diventa più di un oggetto, qualcosa di soprannaturale sul quale scaricare la nostra responsabilità di crescere. Abbiamo reso gli oggetti soggetti, dotati di un loro potere e li amiamo, forse più delle persone.

Oggi stiamo osservando una psicosi collettiva che sta portando verso lo sviluppo di un pericoloso feticismo segno di una regressione di massa imponente da cui poche persone ne escono indenni.

Ma andiamo con ordine.

1.La mascherina, da dispositivo di protezione a oggetto transazionale.

La mascherina è uno strumento di protezione individuale e serve per prevenire il contatto con virus o elementi patogeni. Quando il tipo di lavoro svolto o un’emergenza sanitaria, climatica o ambientale finisce, viene dismesso come qualsiasi altro oggetto di protezione: guanti, camici, occhiali, ecc.

La persona si separa dall’oggetto e riprende ad agire normalmente.

Se questa separazione non avviene, lo strumento “protettivo”si trasforma in un oggetto transazionale.

Per oggetto transazionale, si intende un oggetto sostitutivo che serve per alleviare l’ansia e l’angoscia da separazione o a superare un trauma.  I primi oggetti transazionali vengono utilizzati durante l’infanzia:  il ciuccio, il bambolotto, l’orsacchiotto, la copertina, che servono da conforto psicologico ed emotivo perché sostituiscono il legame simbiotico con la madre.

L’oggetto sostitutivo quindi ha una funzione calmante, consolatoria e rassicurante che ricorda e sostituisce il legame con la mamma e permette di superare il dolore della separazione. Permette quindi un passaggio, una transazione tra il legame simbiotico e l’autonomia. Solo una mamma “sufficientemente buona” insegna a superare e accettare l’esperienza del distacco. E quando non ne siamo capaci cerchiamo il sostituto per stemperare l’angoscia (Donald Winnicot, gioco e realtà, Armando ed. 1974).

Molte persone oggi indossano la mascherina come oggetto transazionale per alleviare un’ansia personale relativa alle relazioni sociali, alle proprie paure, alle insicurezze e li identifica come dipendenti da rassicurazioni esterne “mai sufficientemente buone”. Sono come bambini spaventati e soli e la mascherina è come la “copertina di linus”, sempre a portata di mano, per alleviare la propria angoscia.

2. L’oggetto transazionale diventa pericoloso quando si trasforma in feticcio.

Secondo S. Freud (1929) il feticismo è un’anomalia del comportamento sessuale, annoverata tra le perversioni.  Si usa un oggetto come surrogato, un sostituto di qualcosa che non c’è ma ci dovrebbe essere, va cioè a riempire una mancanza. Sostituisce l’organo sessuale genitale come strumento per raggiungere una gratificazione sessuale. Simbolo di una paura di castrazione e simbolo fallico. L’oggetto quindi è usato per provocare l’eccitazione sessuale e soddisfarla (piedi, scarpe, indumenti intimi, ecc).

Sempre Winnicot  afferma che l’oggetto transazionale può degenerare in un’ oggetto feticistico e persistere come una caratteristica della vita adulta. Viene iperinvestito di contenuti psichici e serve a negare i vissuti di perdita e di separazione.

ECCO IL PASSAGGIO: l’oggetto transazionale, perde il carattere calmante che allenta l’ansia e diventa feticcio. Il feticcio cioè serve per negare la perdita, per negare un’esperienza angosciante. Ma il paradosso è che proprio utilizzandolo, richiama quei vissuti di perdita dai quali si vuole fuggire. Scatta quindi  un meccanismo difensivo dell’Io di tipo ipocondriaco. Cosi la persona entra in una forma di dissociazione tra la mente e il corpo per evitare un sentimento o un ricordo doloroso o persecutorio.

La mascherina quindi trasformata in un feticcio diventa un oggetto patologico al quale ci si aggrappa non solo per scaricare paure e inquietudini ma per colonizzare la psicologia di chi la porta con venerazione e dipendenza. E’ come un oggetto magico a cui delegare la sicurezza e il potere personale mai raggiunto o perduto.

3. Predisposizioni al feticismo.

E se l’ansia sociale si è aggravata e diffusa, la mascherina diventa una compagna di vita. Ma le persone non sono diventate cosi, si sono soltanto mostrate, si sono manifestate in ciò che prima era celato perfino a loro stesse.

Non è sufficiente incolpare la massiccia e invasiva azione di ipnosi collettiva, dietro ci sono aspetti irrisolti della propria storia affettiva spesso con le figure genitoriali che oggi sono rappresentate e spostate sulle istituzioni e sulle autorità alle quali sono state delegate le nostre azioni e le nostre scelte come persone adulte.

C’è inoltre un aspetto legato alla nascita.

La predisposizione al feticismo sembra infatti dovuto alla qualità e ai traumi della vita intrauterina incarnazione del “fantasma del gemello psichico” alla quale fa seguito il tentativo di ristabilire una sorta di ricongiunzione con un fantasma psichico di se stessi attraverso il feticcio. (Pelufffo,  Micropsicoanalisi dei processi di trasformazione, 1976).

Inoltre, è da considerare la sindrome del gemello scomparso che si riferisce alla scomparsa di un embrione in gravidanze gemellari confermate tali da un’ecografia all’inizio della gravidanza ( La sindrome del gemello scomparso, Alfred e Bettina Austermann,  1989).

4. Uscirne si può?

Dovremmo renderci conto di questa psicosi e regressione di massa e cominciare a cambiare, perchè il rischio è che continuiamo a proteggere e difendere le fonti del nostro malessere.

Alla fine la mascherina serve per proteggersi dalla vita, dalla vitalità, dalla gioia. E mantenerla significa vivere nella nostalgia di un dolore, a ricordare la conoscenza del dolore. E ricordandola, la rigeneriamo dentro noi stessi e la imponiamo agli altri. E mentre la indossiamo  partono le associazioni inconsce in cui la mente ripassa un’immagine di dolore: la stessa filastrocca, gli stessi ricordi  dietro i quali non ci sono più le persone viventi ma stereotipie che si reincarnano giorno dopo giorno.

Allora bisogna fare una scelta e decidere che livello di vita vogliamo vivere. E per vivere bene bisogna riconoscere e superare la paura della perdita, della separazione, della morte, della malattia e andare alla conquista della propria autonomia.

Bisogna ripristinare le coordinate della nostra salute biologica ed emotiva. Ripristinare il contatto con il proprio essere e metabolizzare un nuovo ordine di amare, di vivere, di crescere, di gioire.

La vera forza, la salute e la libertà  stanno dentro ma per entrare in quel dentro, bisogna liberarsi da tutti i copioni e fare la metànoia, il cambiamento di mente.

E’ una conoscenza, un percorso, una decisione possibile a tanti, ma non per tutti.

Per chi vuole essere libero dalla paura indotta da altri, per vuole vivere in libertà e non essere più stupido e inferiore al grande bene e al grande dono che ognuno porta in sé.