Alcune persone quando mi contattano, prima di prendere un appuntamento mi chiedono quale metodologia io applichi, quale scuola o orientamento segua.
Sono persone già acculturate che hanno esperienza di percorsi psicoterapeutici o che si sono documentate su internet e quindi, scelgono i professionisti in base al tipo di approccio che ritengono migliore o che vogliono sperimentare.
Sapete quanti ce ne sono?
Sugli 8 paradigmi fondamentali (psicoanalisi e psicodinamica, terapia rogersiana, umanistico-esistenziale, comportamentista, terapia strategica, sistemico-familiari-relazionali, terapie su base corporea e approcci di tipo eclettico di derivazione americana), si sviluppano più di 70 modelli e prospettive che rendono il panorama alquanto complesso.
E io non posso rispondere alla domanda.  Sapete perché?
Perché dopo anni di psicoterapia tradizionale (di vari orientamenti) fatta su me stessa e poi applicata a livello professionale, sono giunta alla consapevolezza che per aiutare una persona non è necessario né vincolante e forse non efficace, rimanere fedeli ad una teoria o ad un metodo particolare.
Di fronte ho una persona con la sua unicità e come diceva A. Adler, bisogna percepirla, imparare da lei e parlare il suo linguaggio.
Non è il cliente che deve capire il linguaggio del terapeuta, ma e’ il terapeuta che deve adattarsi alla personalità, alla cultura, al linguaggio di chi ha davanti. Altrimenti è un indottrinamento. E siccome di indottrinamenti ne ho fatta abbastanza esperienza, ora li fiuto a distanza e li rifuggo.
Così, dopo aver frequentato Scuole differenti tra loro, studiato e sperimentato diversi approcci metodologici, quando mi trovo davanti a qualcuno, da tutte le conoscenze, dai linguaggi dei grandi della psicologia, seleziono quelle che sono più utili a chi mi sta difronte, semplificandole con un linguaggio e con esempi comprensibili presi soprattutto dalle esperienze di vita personali e professionali e dalla vita della persona stessa che parla di sè.
Non ho bisogno di tante spiegazioni e descrizioni perché mentre l’altro parla, arriva come un’intuizione, un’immagine mentale, una frase o una sensazione fisica che mi fa vedere il punto della crisi, il punto di dolore, l’amore mancato o dimenticato, quello rimosso o rifiutato, la domanda nascosta dell’altro.
Il problema poi è comunicare con l’altro nel rispetto dei tempi e del livello di coscienza e di consapevolezza che ha.
Dopo tanti anni sono arrivata ad avere una conoscenza e un’esperienza introiettata che alla fine non applico in modo sistematico o stereotipato alcun metodo. Perché non serve tanto “capire” il cliente o insistere affinché lui capisca, ma avere la trasparenza dentro di sè per leggere l’altro attraverso se stessi perché il vero strumento di conoscenza è il terapeuta stesso, la sua personalità, liberata da tutti i lacci che la tenevano imprigionata.
Ecco perchè chi offre un servizio di aiuto non può mai fermarsi a un diploma o una laurea. Un professionista serio, non ce la fa a fermarsi. E’ sempre un pò “tormentato”, necessitato a continuare a lavorare su se stesso, ad aggiornarsi e soprattutto a verificare continuamente se la sua vita interiore corrisponde veramente con ciò che ha creato fuori e intorno a sé.