Perché gli uomini muoiono lamentandosi tanto? Come si                                                                                                              insegna ai bambini la matematica, la scrittura, e tutto ciò che deve essere                                                                                imparato bisogna insegnare loro anche la grande dignità della morte… Non                                                                        sappiamo vivere e per questo non sappiamo morire. Finché avremo paura                                                                            della vita, avremo paura della morte”. (Sri Aurobindo)

 

Non è mai troppo tardi. Per chiedere scusa, per dire “Ti voglio bene”, per un abbraccio mai dato, per riparare un torto, per riequilibrare un’ingiustizia. Anche negli ultimi istanti della vita, è possibile cambiare e incidere nella vita di chi rimane: con un gesto, una parola, un SI alla vita così com’è, perché anche se il corpo non reagisce e la mente è offuscata, l’Anima ascolta e comunica, sceglie e prende decisioni. E in un solo istante, può guarire una ferita, lenire un dolore, avviare una guarigione spirituale per se stessa e per i cari che ha amato.
La morte di mia madre, avvenuta qualche giorno fa, ha avviato una serie di pensieri e riflessioni, sul morire ma soprattutto sulla vita. Perché la morte non è altro che l’inizio di un’altra vita, e la vita nella sua essenza, è un esercizio spirituale per prepararci a morire bene, senza paura, colpe, rammarichi o attaccamenti; ma come esseri di luce e messaggeri d’amore.
La morte fa paura a tutti; è ancora un tabù. Il solo nominarla fa scattare gesti scaramantici e si esorcizza chiamandola con altri nomi: “fine della vita” “conclusione del cammino terreno” “decesso”. Non si parla volentieri nemmeno dei morti per paura che possano invadere le nostre notti come spiriti erranti e incrinare la nostra serenità.
Non accettiamo la morte, la riteniamo spesso ingiusta, crudele, improvvisa, senza senso. Ci rivolgiamo alla fede per cercare un po’ di consolazione in quello che sarà la vita nell’aldilà. Per chi ci crede. Per altri, con la morte finisce tutto e credo siano le persone più infelici e paurose.
La morte è una nemica da evitare e rimandare il più possibile. Così ci hanno insegnato, come ci hanno insegnato che è bene e normale devastare e deturpare il corpo con interventi chirurgici spesso inutili, con accanimenti terapeutici o sostituzioni di organi per paura di perdere il corpo e i suoi piaceri; ma anche i nostri egoismi e la nostra ignoranza.
Dimentichiamo che non siamo noi a decidere il modo e il momento di morire ma che l’Anima e lo Spirito hanno deciso prima di noi. E’ già tutto scritto?
A me piace pensare che siamo esseri angelici e proveniamo da una dimensione spirituale dove tutto è Uno e che l’Anima sceglie di nascere e venire su questa Terra per fare esperienze, per imparare qualcosa. Così da lassù, sceglie in quale luogo, in quale terra, in quale famiglia, attraverso quali genitori nascere. Lo decide in base al suo scopo che si è prefissata di raggiungere qui.
In questa logica dell’Anima, trovo che tutto sia giusto: il tipo di ambiente in cui nasciamo, lo status sociale, la personalità dei nostri genitori, le loro problematiche, genitori ricchi o poveri, buoni o crudeli, capaci di amare e dare sostegno o che abbandonano e uccidono; giuste sono le difficoltà che incontrerà ma anche le risorse, gli amori, come e quando morirà. Avrà deciso anche quanto tempo, quanti anni o quanti mesi e giorni le serviranno per portare a termine il suo compito.
“Tutto è compiuto”, riporta il Vangelo, alla morte di Gesù. Ha compiuto il suo destino a trentatrè anni, come alcuni lo compiono in settant’anni, altre anime in dieci anni o in tre mesi.
Solo che una volta nati, noi non ricordiamo più niente e tutto ci sembra ingiusto e difficile. Molti iniziano un cammino spirituale e un percorso di consapevolezza per ricordare lo scopo, il motivo per cui  sono venuti qui, a volte perdendosi in una spiritualità che li aliena dalla vita vera rifiutando l’incarnazione e il rispetto del corpo; altri si immergono solo nei piaceri della vita o abusano di sostanze e farmaci per non sentire il dolore dell’anima che non riesce a realizzare il suo scopo.
Quando poi sopraggiunge la morte di una persona cara, o si avvicina una grave malattia pensiamo che tutto finirà e andremo verso l’ignoto da soli. Non è la più grande paura morire da soli?
Ma questo di pensare alla morte è il prodotto di una logica lineare: si nasce, si vive e si muore. Inizio, procedimento e fine. Invece la legge della natura e dell’universo ci indica in ogni momento che non è così. Da quando sorge il sole, brilla nel cielo e poi tramonta per ricominciare il giorno dopo, così tutto è un ciclo che si ripete: i giorni, le stagioni, le stesse cellule del nostro corpo, nascono e muoiono per poi rinascere, continuamente.
In questo senso il morire non è la fine della vita ma fa parte della vita: la nascita è l’inizio. Si vive e la morte è la fine di un tipo di vita, di un tipo di corpo, di un tipo di energia, la fine di una forma, di un modo dell’intelligenza, di un’identità per iniziarne un altro che sarà diverso. Un’altra dimensione, un altro mondo, un diverso tipo di coscienza e di presenza.
Anche nella vita di tutti i giorni moriamo e nasciamo nella mente ogni volta che abbandoniamo un modo di pensare e ne assumiamo uno diverso che ci apre a nuove consapevolezze ed a una maggiore vitalità.
Quindi perché parlare di morte? Dovremmo invece parlare della vita. E quando una persona cara muore è un’occasione importante per riflettere sulla sua vita ma anche sulla nostra e porci nuove domande.
Come ha vissuto? E’ stata una persona capace di amare? Capace di dare amore? Una persona generosa, compassionevole, saggia? Ha conosciuto la gioia e la passione? Che ricordo lascia di sé? Quali impronte su questa terra? E’ riuscita in qualche modo a rendersi utile agli altri? Ha vissuto secondo i propri valori e le proprie idee? E’ rimasta fedele a se stessa?
Domande dalle quali emergono risposte spesso dolorose, accompagnate da rammarico e senso di colpa. Altre invece sono di gioia, soddisfazione, leggerezza e armonia se la vita è stata vissuta con pienezza. Ma quante persone possono dire questo?
E noi che rimaniamo ancora qui, a vivere il tempo che il destino ci concede, ci siamo mai posti queste domande?
Cosa ho fatto finora della mia vita? Come sto vivendo? Vale la pena ancora vivere in questo modo? Che valori, che principi guidano le mie giornate? Ho compreso il valore della mia vita? Ho trovato il motivo per cui vivere? Che tipo di persona sono veramente? Nella mia vita c’è amore? C’è entusiasmo?
E le risposte che ognuno di noi avrà, possono essere punti di partenza per diventare persone migliori per noi stessi e per le persone intorno a noi.
In questo momento, penso ai figli, a noi tutti in veste di figli, in confitto con i genitori, che non si parlano da anni, che hanno il cuore pieno di risentimento, di sensi di colpa, di rancore; penso a quei figli che hanno lasciato con dolore e rabbia i genitori e non li hanno rivisti nemmeno in punto di morte; a quei figli che hanno criticato, offeso, giudicato o ucciso senza aver ottenuto pace o perdono. Fedeli a un patto infantile d’amore e di dolore mai tradito.
Penso a quei genitori che hanno rifiutato i loro figli, che li hanno abbandonati, ripudiati, uccisi, esclusi, rinnegati, mai amati, anche loro vittime di ferite e traumi che si portano dietro fin dall’infanzia.
Una catena di sofferenze che fanno della vita una desolazione emotiva e della morte, un’eredità di dolore.
La vita dovrebbe essere vissuta con piacere così come la morte. E possiamo prepararci ora, in vita, a vivere meglio e morire bene.
Morire bene significa imparare ad abbandonare tutto: i sensi di colpa, l’orgoglio, il rammarico, il dolore e la rabbia; guardare e riparare le ferite affettivi e gli irrisolti esistenziali, le ingiustizie e i torti subiti o commessi. Prepararsi a morire leggeri come piume perché l’Anima possa intraprendere il viaggio verso la luce libera dalle catene e liberando chi resta, da pesi non suoi. Morire bene significa lasciare in eredità il permesso di vivere in salute, con amore, con abbondanza e soddisfazione esistenziale.
In questa vita, in qualsiasi momento, si può cominciare questo percorso di guarigione fisica, emotiva, psicologica e spirituale, un percorso che implica il riconoscimento e il ringraziamento per ciò che abbiamo avuto e vissuto, distaccandoci dal lascito di dolore e di sacrificio. Dicendo un grazie e un arrivederci a chi se ne è appena andato, decidendo di vivere la vita con più significato, accettando tutta la gioia che ci verrà incontro.
E la morte sarà il momento di una promessa di vita piena e più vera. La nostra.
E per fare questo, non è mai troppo tardi.

Per chi vuole approfondire segnalo:
Cesare Boni, Dove va l’anima dopo la morte?
Bert Hellinger, Riconoscere ciò che è