“Con la grazia di Cristo
prometto di esserti fedele sempre,
nella gioia e nel dolore,
nella salute e nella malattia,
e di amarti e onorarti
tutti i giorni della mia vita”.

Questa è la formula del matrimonio nel rito religioso in Italia; per quello civile ci sono tante varianti che si possono personalizzare secondo la fantasia degli sposi o prendendo spunto da poesie e canzoni. Ma quante persone sposate possono dire di mantenere o aver mantenuto questa promessa? E’ veramente attuabile? I numeri delle separazioni e dei divorzi sembrano dire di no.
Il 26 maggio scorso, il Governo ha approvato con un Decreto Legge – a larga maggioranza – la riduzione dei tempi della separazione per giungere al divorzio “breve”: dai tre anni previsti attualmente, a 12 mesi in caso di separazione giudiziale e a 6 per quella consensuale, indipendentemente dalla presenza o meno di figli. Una firma, e in dieci minuti davanti all’avvocato, vengono cancellati anni di convivenza, aspettative, progetti di vita e promesse. Rimane il rammarico, il senso di colpa e di fallimento e spesso anche la depressione.
Si dice sia un segnale significativo verso il progresso culturale e civile che serve per abbassare i costi onerosi della giustizia, a snellire il lavoro dei tribunali e, non per ultimo, un bene per la coppia che evita il prolungamento di conflitti e disagi che ricadono poi sui figli.
Dal punto di vista sociologico c’è chi pone l’attenzione sulla povertà che produce una separazione. A meno che non si viva in una condizione di benessere e ricchezza, è un dato osservabile da tutti che le famiglie benestanti si ritrovano ad essere sempre più bisognose. Gli uomini sono costretti a tornare dai genitori perché non possono pagare l’affitto di una nuova abitazione e le donne devono umiliarsi o lottare continuamente per farsi versare il “mantenimento” che spesso l’ex coniuge non può o si rifiuta di versare. In mezzo i figli che come sempre, pagano le conseguenze dei conflitti e dell’immaturità dei loro genitori.

Qualunque siano le opinioni sul divorzio e sulla validità di questa novità giuridica , non si può non avviare una riflessione più profonda sulle relazioni coniugali e sul concetto di matrimonio.
Il dizionario della lingua italiana Zingarelli lo definisce così:
Matrimonio : Accordo tra un uomo e una donna stipulato alla presenza di un ministro di culto o un ufficiale dello stato civile con cui i soggetti contraenti si impegnano a instaurare e mantenere fra essi una comunanza di vita e di interessi. dal lat. Matrimonium, deriv. di mater “madre”con riferimento alla maternità legale.
E cos’è invece il patrimonio? “ Complesso di beni culturali, sociali e spirituali ereditato attraverso i tempi, di cui dispone una persona o una collettività: dal lat. patrimonium, da patris, “padre”.
Quindi al padre, all’uomo va il patrimonio, la gestione del potere e della ricchezza; alla donna spetta il diventare madre e attraverso questo ruolo – legittimato con il matrimonio – può appropriarsi e/o condividere il potere economico dell’uomo. Non è stato così per secoli e secoli?
Oggi molte cose sono cambiate ma la mentalità patriarcale di come si intenda ancora il matrimonio e come debba essere desiderato e vissuto, ancora esiste e si tramanda con la complicità spesso inconsapevole della donna che sposandosi, spesso è quella che reprime di più la sua autentica personalità e rinuncia alle possibilità di vivere una vita felice e realizzata.
La definizione lo dice chiaro: il matrimonio serve solo per fare la madre legalizzata, un ruolo che 24 ore su 24 dovrà svolgere per tutto il resto della vita, a volte nemmeno scelto con libertà. E come dice un raffinato pensatore “ passi la vita a risolvere in due tutta una serie di problemi che se non ti sposavi non avresti avuto. Tutto perché pensavi che volesse dire qualcos’altro! Già pensavi! ”
Poi, dopo qualche anno, la passione è finita e ti accorgi che l’altro è cambiato, che tu non sei più felice perché hai rinunciato a troppe cose, o hai sempre servito i bisogni di qualcun altro. E il matrimonio che doveva coronare “il sogno romantico di un amore eterno” è diventato una prigione! In realtà si arriva al matrimonio in modo immaturo, irresponsabile, con una personalità infantile che impedisce e banalizza lo svolgimento di un vero ruolo genitoriale, a scapito del benessere dei figli. Non si fa prima un minimo di riflessione su cosa significa impegnarsi una vita con un altro, tanto se si sbaglia c’è la scappatoia del divorzio, ora anche breve, vivendo inconsapevolmente, uno stile consumistico delle relazioni sentimentali.
Allora, tornando al divorzio: è breve per fare cosa? La maggioranza di coloro che chiede il divorzio ha già in corso un’altra relazione sentimentale, ha generato altri figli e vuole risposarsi, spesso sotto la pressione dell’altro partner. Ma perché rivivere tutto daccapo quando c’è una percentuale abbastanza elevata che il nuovo matrimonio porterà le stesse problematiche di quello precedente? Nel linguaggio psicologico si chiama “coazione a ripetere” ed è sintomo di nevrosi.
Ma si ripete l’esperienza perché le persone non intraprendono un percorso di conoscenza personale e rimangono ignoranti: non conoscono la loro vera personalità, i loro autentici bisogni, le aspirazioni, i desideri e continuano a vivere superficialmente le relazioni affettive e sentimentali. Rivivono meccanicamente le fasi dell’innamoramento senza aver compreso le vere motivazioni nella scelta del partner, e si rituffano in una nuova relazione che nasconde ancora una volta, bisogni insoddisfatti di amore, di protezione, di sicurezza economica, ma anche insoddisfazione, disistima, insicurezza personale e un marcato narcisismo.
Certo si può uscire da un matrimonio sbagliato, anche se molti ancora non possono permetterselo per motivi economici e culturali – ma è necessario comprendere che è stato comunque una lezione di vita da cui imparare a conoscersi meglio, per non incorrere negli stessi errori, per uscire dalla nevrosi dell’infelicità, per migliorare e costruire su nuove basi la relazione che verrà.